La Epstein aesthetic – Beat and Love n. 21
Con il rilascio degli Epstein Files, ha preso forma un archivio visivo del disagio: seducente, respingente e impossibile da guardare senza avvertire un senso profondo di inquietudine
Jeffrey Epstein è ormai diventato “the cool guy” della vulgata internettiana, che ha impiegato pochissimo tempo a passare dall’indignazione alla memificazione. Un processo discutibile, ma in larga parte inevitabile: internet funziona così. È uno spazio ambiguo, sospeso tra scandalo e intrattenimento, dove il black humor si applica anche a temi che richiederebbero tutt’altra serietà.
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Vorrei richiamare all’ordine come fanno altri prendendosi gli applausi di chi ha bisogno di ergersi moralmente, ma mi sono data come compito soprattutto quello di registrare i fenomeni.
Il meme, di certo, non smaschera l’abuso di potere anzi lo rende consumabile, normale. In questo senso lo desacralizza: scarica parte di quel pathos, talvolta eccessivo, su cui avevamo proiettato fantasmi e paranoie alla Eyes Wide Shut. Ma questa perdita di tensione non equivale a una maggiore lucidità critica. È anche vero che molto dipende anche dalle modalità con cui il materiale è stato rilasciato.
L’obiettivo della Commissione d’inchiesta della Camera era forse incastrare Trump e condurlo all’impeachment? Riaprire i processi, indagare le élite politiche-economiche-intellettuali americane? A questo punto non mi è più chiaro. Il risultato, invece, è stato un immaginario dominato dai meme su Epstein e dai commenti su quanto sia hot Ghislaine Maxwell. Il cortocircuito tra intento politico e ricezione mediatica ha finito per spostare il fuoco: dal potere e le sue responsabilità alla sua estetizzazione.
Con la pubblicazione integrale degli Epstein Files, Jeffrey Epstein non è diventato soltanto un meme. L’enorme quantità di fotografie, in gran parte provenienti dalle residenze del magnate, ha fornito il materiale per la nascita di una vera e propria aesthetic.
L’aesthetic Epstein è un amalgama di stucchi dorati e pacchianeria americana, di salotti che sembrano set cinematografici abbandonati, arredati con opere d’arte contemporanea dal sottotesto ironico-sessuale. Un universo visivo che cammina costantemente sul filo sottile tra intellettuale e volgare, tra kitsch e radical chic, tra velleitarismo e pornografia.
Epstein e Maxwell si circondavano di statuette sumere e indiane legate alla fertilità, colonne salomoniche e librerie stracolme di volumi dal gusto quasi adelphiano. Ovunque simboli e richiami: Moloch, cabale, gufi, Minerve, occhi onniscienti, sfere di cristallo, fino ai continui rimandi espliciti e impliciti a Lolita di Nabokov, ad Alice nel Paese delle Meraviglie e a Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. È che c’è un po’ anche di Jerry Calà in Professione vacanze che esclama “Libidine, doppia libidine, libidine coi fiocchi”.
Il perturbante epsteiniano è impregnato di odore di disinfettante e pizze a domicilio che aleggia su camere da letto, saune, zone palestra, bagni in marmi bianchi, riempiti con lettini da massaggio, boccette di oli essenziali e creme costose, pile di asciugamani di spugna, cuscini e lenzuola per gli ospiti. A completare il quadro: piscine, maschere inquietanti appese alle pareti, una quantità spropositata di fotografie di celebrità decontestualizzate, appartamenti labirintici e tappezzerie floreali.
C’è poi la presenza invisibile di qualcuno che osserva e spia (in effetti, noi stessi, nell’esatto momento in cui guardiamo quelle immagini). Schermi spenti di grandi televisioni, stanze della sorveglianza, MacBook con lo screensaver, telecamere disseminate negli ambienti: sembra quasi di scorgere piccole luci rosse accese nella penombra, come se lo sguardo non fosse mai davvero unidirezionale. Black mirror in purezza.
Un’aesthetic di internet che si aggiunge ad altre già note come la dark academia e il cottagecore. Un archivio visivo del disagio che segue il filone delle backrooms e degli spazi liminari: seducente, respingente e impossibile da guardare senza avvertire un senso profondo di inquietudine.
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continuo a ripeterlo: non avrei mai immaginato che "Salò" si sarebbe rivelata la profezia pasoliniana avveratasi con la maggiore accuratezza.
Mi fa quasi rimpiangere la tavernetta Bunga Bunga in quel di Arcore...