La “famiglia nel bosco” è figlia del “cronicamente online” – Beat and Love n. 20
C’era una volta un servizio de Le Iene che parlava di una famiglia nel bosco. Era congegnato così bene, e ci sbloccava così tanti ricordi di esperienze mai vissute, che venne giù l’intera internet
Potrebbe iniziare così questa storia presa da “I mille e un rabbit hole”, che tocca raccontare a noi Sherazade su Substack, sperando che il Re Algoritmo rimandi la nostra esecuzione (linciaggio online). Comunque, se la storia della “famiglia nel bosco” ha avuto così tanto successo mediatico è perché ha toccato lunghi fasci di nervi scoperti. Prima ancora che venisse approfondita la vicenda processuale, tutta la narrazione ha preso una direzione precisa grazie a un servizio de Le Iene, virale su ogni piattaforma, da TikTok a Facebook. L’intero servizio è accompagnato da un tappeto musicale di chitarre e ukulele, che conferisce alla storia un’aura idilliaca, rafforzata dall’uso di parole come “casetta”, “bambini che vivono insieme agli animali”, “cucina a legna”, “sorgente”. Si vedono fili di lucine appese al soffitto, serate attorno al fuoco, e una campagna abruzzese romanticizzata come neanche nei servizi di Linea Verde. Per poco non sembrava una vecchia pubblicità del Mulino Bianco o della Barilla. Oltre a Le Iene, la famiglia aveva accolto nel bosco anche altri giornalisti, come quelli di Vanity Fair, invitandoli a trascorrere una notte lì. Loro avrebbero raccontato il benessere che si respirava nella campagna abruzzese e ottenuto, a loro volta, un ottimo ritorno in termini di engagement e traffico al sito: si chiama scambio equo e solidale.
Dopodiché, sono arrivati i cattivi, con la colonna sonora che si fa drammatica; ai raggi di sole che filtrano tra le foglie si sostituisce uno scenario fatto di scartoffie contro-bollate, paesaggi grigi tribunalizi, la minacciosa (e anche un po’ cringe) scritta “La legge è uguale per tutti”. Fanno il loro ingresso i servizi sociali, scortati da ben cinque volanti dei Carabinieri, che vorrebbero strappare i bambini alla famiglia e a quel paradiso bucolico. Come risultato, nel giro di poche ore, ho visto ogni feed riempirsi di post indignati, condivisi anche da persone che di solito non si lasciano andare a invettive online. Commenti del tipo: “Di chi sono i figli, della famiglia o dello Stato?”. E ancora: “Li toglierei volentieri anche io dalla scuola”; “Ci vogliono schiavi del sistema”; “Ci stanno avvelenando e non ce ne rendiamo conto”; “Oggi i bambini hanno troppo e per questo crescono malati”; “I bambini sono sempre davanti a uno schermo”. Insomma, da questa ondata di indignazione online si dovrebbe dedurre che la società in cui viviamo non ci piace. C’è un certo, o forse presunto, benessere, ma non stiamo bene. Ce ne lamentiamo continuamente, in ogni suo aspetto. Fa tutto schifo. Vogliamo riconnetterci con la natura.
Che la nostra società stia attraversando un periodo di profondo cambiamento è innegabile: tutto sembra essere rimesso in discussione. Parliamo continuamente di “società di sorveglianza”, di “iper-medicalizzazione e big Pharma”, di “uno Stato che non fa abbastanza o che fa troppo”, o che se fa qualcosa la fa male. Molte critiche rivolte alla scuola, all’iper-medicalizzazione o alla sorveglianza costante, in effetti, sono fondate e meritano un confronto serio. Ma online il dibattito fatica a mantenersi su questo piano: funziona molto più quando assume la forma di racconti paranoici e cospirazionisti, che alla fine convergono tutti sulla stessa idea della “pillola rossa” da prendere per “risvegliarsi” e fuggire da Matrix. Sono temi che online funzionano sempre: la lamentela raccoglie like a raffica, mentre delle buone pratiche non parla mai nessuno (e prendono due like in croce). Più la gente trascorre il proprio tempo online, più tende a interpretare in modo distorto e negativo il contesto reale in cui vive. Si alimentano paranoie e fissazioni, e i nemici immaginari assumono contorni sempre più nitidi: diventano figure minacciose che tramano contro la possibilità stessa di vivere in pace. E c’è qualcosa che rende tutto questo ancora più reale nelle loro teste: il fatto che gli stessi temi vengano condivisi e trovino conferme all’interno delle community.
Dentro questo scenario, ecco arrivare l’ennesima narrazione costruita su misura, completa di un immancabile “salviamo i bambini”, la causa che scatena puntualmente l’indignazione collettiva, specie quando i bambini sono simbolici e lontani, non quelli sul sedile accanto in aereo o al tavolo vicino al ristorante, che piangono e ci infastidiscono. Ma, come spesso accade, dietro quei nervi scoperti e quella narrazione confezionata ad hoc, si nasconde uno scenario completamente diverso, che quasi nessuno ha riconosciuto. Mentre i giornalisti trascorrevano una notte nella “casa nel bosco”, nessuno sembrava essersi accorto che la madre australiana, Catherine Louise Birmingham, aveva un blog personale (oggi reso privato). In quelle pagine spiegava nel dettaglio le ragioni della loro scelta di vita, e ricorrevano parole chiave che avrebbero aiutato a inquadrare meglio l’intera vicenda. Nel blog si parlava di unschooling, un trend molto diffuso online e particolarmente popolare proprio in Australia, complice anche un reality di grande successo cioè Wife Swap Australia (in Italia noto come Cambio moglie). La versione italiana era più moderata, con contesti relativamente simili tra loro; quella australiana, invece, estremizzava tutto, mettendo spesso a confronto famiglie con uno stile di vita normale, con famiglie “off-grid” (fuori “dalla griglia”, cioè dal sistema) e “neorurali”. Neorurale è un’altra parola chiave, meno presente nel blog ma emersa chiaramente nelle interviste successive e negli approfondimenti della stampa. La famiglia nel bosco non è un caso isolato: ha scelto proprio quel luogo in Abruzzo perché lì si era formata, da almeno una quindicina di anni, una piccola comunità intenzionata a crescere secondo gli stessi princìpi, condividendo uno stile di vita autosufficiente e lontano dalle istituzioni tradizionali, benché supportata anche dal sindaco del comune abruzzese.
Unschooling e NeoRuralism sono hashtag ricorrenti in moltissimi canali di successo su YouTube e TikTok. Dietro ci sono influencer e content creator che hanno trovato una certa visibilità, soprattutto negli anni della pandemia e nel momento in cui il modello di influencer marketing alla Chiara Ferragni ha iniziato a mostrare la corda. In questi contenuti non compaiono più case lussuose ma ruderi in mezzo ai boschi, non cene in ristoranti stellati ma piatti di ceramica colmi di zuppe preparate con i prodotti dell’orto, e al posto delle macchinone con autista asinelli e caprette. Per quanto l’estetica sia cambiata, i bambini restano centrali: la loro presenza rende qualsiasi contenuto più efficace. Non li si vede più fare unboxing di giocattoli, ma rotolarsi nella terra, spalare foglie secche o cucinare da soli, sempre circondati da animali di vario tipo. Vengono sempre descritti dalle loro mamme (che poi sono le content creator ufficiali) come “calmi” e “non ansiosi”, una scelta narrativa che intercetta un’altra grande paura dei nostri tempi: l’idea che lo stile di vita moderno favorisca lo sviluppo di disturbi come l’autismo, e che la fuga dalla società sia una sorta di antidoto naturale. Anche la madre della “casa nel bosco” aveva un canale YouTube. Precedentemente gestiva anche un profilo Facebook (che ha cancellato). Non erano sicuramente dei content creator professionisti e andavano sempre più integrandosi e chiudendosi nel loro contesto, ma è probabile che si siano lasciati ispirare da stili di vita visti online.
Infine, c’è anche una forte componente spirituale, tralasciata dalla maggior parte dei media ma chiaramente visibile nel blog di Catherine Birmingham e sul profilo Facebook del marito Nathan Trevallion. Si tratta di una religiosità alternativa di derivazione new age e hippie, con sfumature orientalistiche e neopagane, ma senza sconfinare in movimenti precisi tipo quello Wicca. Tornano, comunque, concetti come “connessione con la Madre Terra”, “self healing”, “armonia con la natura”. Un insieme di pratiche spirituali molto popolari online (ne avevo parlato qui) che costituirebbero anche una parte delle entrate economiche della famiglia, oltre alle raccolte fondi. La madre offriva consulenze di “pulizia energetica” delle case, comunicazione telepatica con animali smarriti, “energy reading”, con prezzi che variavano dai 50 ai 100 euro. I rituali si svolgevano all’interno del loro personale “Love and Nature Healing Temple”, un cerchio di pietre costruito dai bambini proprio accanto alla “casa nel bosco”. Anche le consulenze online della madre venivano condotte all’interno di quel cerchio. Da questa visione derivava anche la loro dieta rigorosamente vegana.

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Messo tutto insieme, il quadro cambia: non è più solo una famiglia “incompresa”, che non vuole vivere secondo i dettami del capitalismo. È un vero e proprio scontro tra la libertà di culto e lo Stato di diritto. La libertà di culto permette a chiunque di seguire lo stile di vita che preferisce, il nostro Stato democratico lo consente ed è giusto che sia così, purché vengano rispettati i diritti dei bambini, che non sono un’opinione, ma un principio stabilito chiaramente dalla nostra Costituzione. In Cina, per fare un esempio diverso, la libertà di culto è poco tollerata dai tempi della rivoluzione maoista. Diverse tradizioni religiose sono soggette a forme di controllo, restrizione e repressione. Comunità buddhiste, musulmane, cattoliche e appartenenti a nuovi movimenti religiosi vengono monitorate, ostacolate nelle loro pratiche e, in molti casi, i loro membri rischiano persecuzioni o detenzioni. Negli Stati Uniti, invece, avviene l’esatto contrario, con l’iper-capitalismo e l’iper-liberalismo che sono il terreno ideale per la proliferazione di nuovi movimenti spirituali, che spesso diventano vere e proprie sette. Lì, scenari da “famiglia nel bosco” sono frequentissimi, normale amministrazione e tendenzialmente vengono lasciati a vivere la loro vita, almeno finché un qualche caso di cronaca non irrompe all’attenzione dei media.
Curiosità: ricordate il Peoples Temple? Anche quello era stato presentato come un esperimento di piccola società neo-rurale, pseudo-socialista (almeno a parole), fondato dal predicatore Jim Jones. In realtà, Jones esercitava un controllo assoluto sui suoi adepti, che chiamava la sua Rainbow Family, trasferiti dagli Stati Uniti nella colonia agricola di Jonestown, in Guyana. Anche lui amava invitare giornalisti e visitatori, che spesso ne riportavano storie edificanti e testimonianze entusiaste. E poi, com’è noto, la storia è finita in tutt’altro modo.
Grazie a internet e ai social media, molte controculture solitamente relegate a piccole nicchie riescono ciclicamente a esplodere in popolarità, trasformandosi in veri e propri casi mediatici. È un fenomeno che abbiamo già visto e che, con ogni probabilità, continuerà a ripetersi sempre più spesso. Man mano che queste community online crescono e raccolgono consensi, soprattutto tra le persone cronicamente online o smarrite dentro un qualche rabbit hole, aumenta anche il desiderio di certi utenti di ricreare quei modelli digitali di vita alternativa nel mondo reale. Il problema è che molte di queste comunità reali nascono e si sviluppano come gruppi chiusi, convinti che la società nel suo insieme sia un nemico da cui difendersi, un’entità esterna da cui proteggere ogni aspetto della propria esistenza. E il rischio che si trasformino in sette esiste. Più siamo online, più le regole della società dello spettacolo prendono possesso delle nostre vite. Più siamo capaci di creare storie, più possiamo sperare che il Re Algoritmo arrivi a salvarci (alla famiglia nel bosco è stato offerto più di un alloggio; quante famiglie povere, fuori da ogni storytelling, invece lottano senza che nessuno offra loro niente?). A volte ho l’impressione che le piattaforme digitali abbiano finito per resettare la nostra memoria storica e le nostre identità collettive: sapevamo come funzionava la società civile, conoscevamo i suoi equilibri, le sue responsabilità condivise; poi, a quanto pare, lo abbiamo disimparato e ora ci ritroviamo a dover ricominciare tutto da capo.
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