Miss Italia, sulle tracce perdute del culto della bellezza – Beat and Love n. 2
Miss Italia non deve morire. Ma allora perché Netflix gli ha dato questo colpo di grazia? E poi, siamo sicuri che il concorso di bellezza per eccellenza sia davvero così cringe?
Guardando Netflix spesso mi chiedo: e ora quale agenda politica ci sarà dietro questa serie (o film, o documentario)? Ovviamente è un pensiero da malfidata: dietro le serie TV e i film Netflix non c’è nessuna agenda, ma solo slide di “content strategy” e numeri, freddi e oggettivi, e complicatissime dashboard in Python a certificare il successo di questo o quell’altro prodotto culturale, e la sua avanzata verso un’altra stagione o la cancellazione. In teoria. Poi nella pratica, è abbastanza facile ravvisare dei sistemi di pensiero alla base di alcuni film e serie, ed è altrettanto facile raggrupparli; questo porta a pensare che delle visioni ideologiche esistano, e che prevalgano su altre.
“Il virus della mentalità woke ha reso Netflix inguardabile”, ha twittato una volta Elon Musk (esplicitando un pensiero che in molti si erano fatti). Ma Netflix, in quanto azienda, non ha mai formalmente certificato questo fatto. Anzi, alle accuse di wokismo a un certo punto l’azienda ha risposto aggiornando il suo manifesto culturale rivolto ai dipendenti che recita: “Sosteniamo l’espressione artistica degli autori con cui scegliamo di lavorare. Programmiamo per un pubblico vasto e dai gusti diversi”. E se non ti stanno bene quei “gusti diversi”, quella è la porta (sintetizzo). Intorno a questo tema c’è però una domanda che ho trovato particolarmente interessante, posta da Massimo Introvigne sul suo portale online “Bitter Winter”. Ora non posso dilungarmi a spiegare chi è Massimo Introvigne, ma se siete dei mostrologi ossessionati dal caso del Mostro di Firenze (come me), lo avete sicuramente già sentito nominare. Comunque, Introvigne sul suo portale si chiede: Netflix è contro la libertà di culto? Mi sono fatta una mia idea ma non risponderò questa volta, vi lascio alle mie considerazioni dopo aver visto Miss Italia non deve morire (e poi, almeno per le prossime puntate della newsletter, basta Netflix).
La società dello spettacolo è infida, traditrice, una bestia che va domata, come sa bene Patrizia Mirigliani, protagonista del nuovo documentario Netflix Miss Italia non deve morire. A dispetto del titolo, il documentario potrebbe apparire ai più come la pietra tombale sul più famoso concorso di bellezza italiano. Come mai la patron ha acconsentito all’uscita, se lei stessa viene ripetutamente mazzolata da tutti i lati, con sommo divertimento degli abbonati di Netflix? Il documentario ripercorre velocemente gli ultimi, travagliati anni di Miss Italia, uno show passato dagli share stratosferici sulla Rai alle dirette streaming, confermando una legge sacra: il pubblico ti percepisce di successo, se è il contesto a darti quell’aura. Altrimenti sei vetusto, cringe. Ma Patrizia Mirigliani è una che conosce le regole, sa che l’umiliazione pubblica è parte del rituale, a cui bisogna sottostare se si spera nella rinascita. La derisione pubblica, che passa anche per quegli account Instagram che ripropongono le scene più trash (o camp, o kitsch) del programma, è il primo passo per suscitare compassione, un sentimento decisamente nazionalpopolare. Oggi è sicuramente meglio essere compatiti che indignare. Ma Miss Italia, rigettata dal contesto istituzionale, non ha potuto far altro che diventare trash, nel momento in cui è stata costretta a emulare Instagram: importando senza convinzione concetti quali la resilienza, il “tema serio” che funge da ricatto morale, le ragazze che devono essere sì belle, ma soprattutto con un trauma da esibire (bullizzata a scuola, col disturbo alimentare, ecc.), la necessità di essere trend, gli asstag (come lo pronunciano nella serie).
“Perché Miss Italia non può essere se stessa?”, si interroga Patrizia Mirigliani distesa su una chaise longue, e la domanda in effetti è più che giusta. C’è una differenza notevole tra le immagini d’archivio in bianco e nero e quelle di oggi: a essere cambiate sono soprattutto le ragazze. Slanciate eppure solide quelle degli anni Cinquanta, con lo sguardo inamovibile e sorriso implacabile, come Sophia Loren e Gina Lollobrigida: salde nella loro identità di donne bellissime, che quando entrano in una stanza ne cambiano completamente l’energia, risucchiando tutta l’attenzione e l’ammirazione verso di loro. Invece, quelle di oggi a vederle sembrano tutte scomposte, esitanti: si muovono goffamente, sembrano non capire il loro stesso corpo, non sanno cosa farsene delle braccia, non sanno perché sono lì a Miss Italia, in diretta streaming. Simbolo di questa confusione identitaria nel documentario è Aurora Miniaci da Bagni di Tivoli, che verrebbe definita “tomboy” da certe community online. Aurora è una specie di Elodie in fieri, dunque bellissima anche se nella sua fase “capelli corti”, e benché si senta un maschiaccio e indossi perlopiù felpone e sneakers, si intigna a partecipare a Miss Italia. “Ma se Miss Italia è massima espressione della femminilità e tu ti senti un maschiaccio, perché vuoi partecipare a Miss Italia?”, le chiede giustamente la mamma. Aurora le risponde che vuole provare a cambiare il concorso, portare qualcosa di diverso. La ragazza, che è molto giovane, cade però nello stesso sbaglio in cui sono caduti in molti: pensare che Miss Italia sia retrograda quando, invece, nel suo contesto ha sempre anticipato i tempi, cambiando mentre cambiavano repentinamente i canoni di bellezza.
Nel 1996, per esempio, Miss Italia inventò la shitstorm: vinse Denny Méndez, prima nera (all’epoca si diceva “non bianca”) con una tiara Miluna in testa, “incoronata a conclusione di una controversa deliberazione incentrata sul colore della sua pelle e sull’ideale di bellezza nazionale”, come riportano le cronache dell’epoca. Diatriba che portò all’espulsione dalla giuria di Alba Parietti (poi riammessa), all’epoca sostenitrice della corrente “una donna nera non può essere Miss Italia”. Quell’anno l’ondata di polarizzazione fu particolarmente forte, la prima volta che andò davvero in crisi l’apparato pompieristico missitalico, che nel corso degli anni aveva sempre smorzato i potenziali focolai d’indignazione, come quando nel 1992 partecipò alle selezioni la prima transessuale (“Era bella, eh?”, dice nel documentario uno degli scagnozzi più fedeli di Patrizia Mirigliani), o quando nel ’90 vennero eliminate le misure di seno-vita-fianchi, o quando vinse la prima donna sposata (poi squalificata in quanto sposata, che portò alla successiva modifica del regolamento). Si dice che il colpo di grazia lo sferrò Laura Boldrini nel 2013 quando dal suo pulpito tuonò: “Non possiamo ridurre le donne a un mero concetto di bellezza. La vera bellezza è quella che viene da dentro e che si esprime attraverso la cultura, le competenze e il rispetto”. O forse il colpo di grazia vero e proprio è opera di Alice Sabatini, Miss Italia nel 2015, quando il passaggio dalla Rai a La7 era già avvenuto: aveva i capelli corti ed era appassionata di sport, ma è passata alla storia per aver dato una risposta-presagio alla domanda sul periodo storico in cui le sarebbe piaciuto vivere: “1942, per poter vedere la Seconda guerra mondiale”. Dopo il divorzio della Rai nel 2013, c’era anche stato un breve ritorno di fiamma nel 2019, per celebrare gli 80 anni del concorso (ascolti medi, non così soddisfacenti). Nel 2023, Patrizia Mirigliani ha provato di nuovo a espugnare il bastione delle rete pubblica, stavolta col governo di centrodestra. La sensazione è che il governo meloniano non abbia più voluto Miss Italia nei palinsesti proprio per evitare il formarsi di nuove, inevitabili e incontrollabili sacche di polarizzazione.
“Miss Italia è diventata un fatto politico?”, si chiede costernata Mirigliani durante uno dei suoi flussi di coscienza riportati nel documentario, sempre distesa su una chaise longue. Poi prosegue il suo ragionamento, facendo un grande discorso di realpolitik: Miss Italia portava le ragazze dalla provincia (Afragola, Sgurgola, Barcellona Pozzo di Gotto) direttamente ai piani alti del mondo dello spettacolo, “con tutte le protezioni del caso”, cioè senza passare per i divani dei produttori alla Harvey Weinstein. “Questa cosa oggi non va più bene?”, esclama a se stessa Patrizia. La bellezza incorrotta era l’unico ascensore sociale; se qualcuno provava a infilare le bustarelle sotto la porta, veniva immediatamente cacciato, la protetta espulsa d’ufficio. Francesca Chillemi, Miss Italia 2003, ha dichiarato in una recente intervista: “Con Miss Italia ho ottenuto in un giorno la mia indipendenza economica. Mi ha permesso di entrare nel mondo del cinema e dello spettacolo. Sennò come potevo lasciare la Sicilia? Volevo la mia libertà e me la sono presa”. Rimane il grande mistero di chi considera le concorrenti al concorso come oppresse da qualcuno, costrette a sfilare quando invece lo vogliono loro, e lo vogliono perché su questo si fonda la società attuale: sul culto della bellezza.
Dunque Miss Italia è morta? Eppure, è da un anno che Zeudi Di Palma, Miss Italia 2021 e concorrente al GF Vip di quest’anno, è in trending topic su X: ha riscosso un discreto successo e ha raccolto una fanbase di tutto rispetto, non solo italiana ma anche internazionale. Dato che si è classificata solo quinta al GF, i fan hanno fatto una colletta per lei con l’obiettivo di arrivare a 50.000 euro, come il montepremi del reality (in realtà, il montepremi era di 100.000 euro, ma il 50% della cifra vinta deve essere devoluto in beneficenza).
L’anno scorso sono diventate virali su TikTok le performance delle ragazze che hanno partecipato alle selezioni di Miss Italia per l’Emilia Romagna. Certo, perché erano performance cringe, ma è comunque un segnale. “La nostra cultura è fondata sull’esibizionismo e sul totalitarismo televisivo. I diversi standard di bellezza sono proiezioni concettuali delle diverse culture. L’oggettificazione [del corpo femminile] è concettualizzazione, la più elevata tra le facoltà umane”, scrive Camille Paglia in Sexual Personae. In questo processo di costruzione della Nuova Donna Italiana, Aurora Miniaci alla fine del documentario, dopo essere stata definita “ciavattona” dalla sua stessa madre, finalmente si decide a indossare una scarpa décolleté tacco 12; improvvisamente trasfigurata, percorre a falcate lo stradone di fronte casa sua a Bagni di Tivoli. Un bambino la osserva rapito dal balcone. Sul palco per le selezioni regionali, Aurora legge una poesia, in cui ammette che finalmente si riconosce: lei è bella.
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