Il marketing come culto, le aziende come sette: love bombing, manipolazione e altre storie d’ufficio – Beat and Love n. 7
La società contemporanea si illude di essere secolarizzata, ma sta replicando dinamiche religiose con il consumismo al posto della spiritualità e la pop culture come rielaborazione dei testi sacri
C’è un equivoco alla base della nostra sgangherata società. Ci consideriamo come la più progredita civiltà mai apparsa su questa Terra, culturalmente moderni, progressisti, laici, abitanti di un mondo secolarizzato tutto dati e scienza, procedure e metodologie per ridurre i rischi al minimo. Pensiamo di avere le cose sotto controllo e siamo scioccati, increduli, quando un evento imprevisto ci dimostra che non è così. Ci siamo convinti che il mondo esista in virtù del nostro cervello che lo codifica; insomma, siamo tornati alla cosmologia tolemaica, con noi al centro dell’Universo (e solo adesso capisco perché, invece, nella Biblioteca Apostolica Vaticana conservano come una reliquia sacra il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico). Eppure, anche prendendo atto del profondo rigetto religioso che oggi attraversa ampi strati della società, resta il fatto che la religione sia un fenomeno prettamente umano: codifica lo stile di vita e la visione del mondo di un gruppo; risponde al bisogno di procedere tutti insieme, appassionatamente, verso una direzione comune. È ciò che rende una civiltà culturalmente rilevante, coesa, funzionale.
Tutte le grandi religioni, prima di diventare tali, nascono da piccoli “movimenti spirituali”: si tratta di gruppi ancora contenuti, che propongono uno stile di vita e una visione del mondo diversi rispetto a quelli dominanti nel periodo in cui si sviluppano. Anche il Cristianesimo è stato un “nuovo movimento spirituale” all’epoca del politeismo romano. Di “nuovi movimenti spirituali” ne nascono continuamente, anche oggi. Nella struttura non sono poi così diversi da quelli del passato, ma a distinguerli intervengono una miriade di variabili: cambia la simbologia, si contaminano con la cultura pop contemporanea, si lasciano influenzare dalla tecnologia e dai linguaggi digitali. Può cambiare lo stile di vita proposto, il modo di procedere insieme verso una direzione e, soprattutto, può cambiare la destinazione finale: alcune religioni invitano a seguire dei precetti morali nel mondo materiale, per ricevere dei benefici nel mondo spirituale; altre invitano i loro adepti a bere un intruglio avvelenato perché gli alieni stanno arrivando. Se il “nuovo movimento spirituale” non porta particolari benefici agli adepti ma solo al suo leader, se all’interno si verificano sistematici abusi e non è possibile uscirne, allora con tutta probabilità siamo di fronte a una “setta”.
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C’è una precisazione linguistica da fare: se in Italia diciamo “setta”, in inglese usano soprattutto il termine “cult”, da cui deriva l’uso sempre più frequente anche in italiano dell’espressione è un culto, con il significato di è una setta. In italiano, però, culto avrebbe un altro significato: indica il complesso delle pratiche religiose rivolte a una divinità, non il gruppo che le pratica (e si può usare, per esempio il metaforico, “è un libro di culto”). Detto questo, si sta diffondendo anche in italiano l’uso di “culto” con l’accezione anglosassone, grazie soprattutto a internet, e al fatto che di questo argomento ne parlano soprattutto negli Stati Uniti, la culla dei nuovi movimenti spirituali postmoderni per eccellenza. Poi culto suona più neutrale rispetto a setta: nessun appartenente a una setta ha mai ammesso di essere parte di una setta. Lo raccontano i fuoriusciti o gli altri gruppi che osservano la setta dall’esterno, e che non riescono assolutamente a comprendere come le persone dentro quel gruppo possano venerare un leader che da fuori sembra un cretino, o seguire stili di vita così estremi (diete particolarmente rigide, sforzo fisico esagerato praticato all’interno di rituali, dress code originali). In effetti, la definizione più precisa di setta è “gruppo abusante”: premettendo che siamo esseri umani che si organizzano in gruppi, comunità, community (quando lo facciamo online), alcuni di questi sono “tossici”. In una relazione tossica di gruppo succedono le stesse cose di una relazione tossica di coppia: controllo, manipolazione, violenza, dipendenza affettiva, presenza di una personalità dominante, conflitto costante. E poi, ci sono i segnali per eccellenza che indicano che si è dentro un gruppo abusante: si viene sistematicamente isolati dagli affetti più vicini (genitori, fratelli e sorelle, amici di lunga data), uscirne sembra impossibile, si è soggetti a un processo di spersonalizzazione e non si ha più bisogno di pensare a niente, perché è il gruppo che pensa per te.
Questa premessa accademica è durata più del previsto, ma tornerà utile anche per i prossimi numeri di questa newsletter. Stavolta, però, serve da introduzione al nuovo libro di
, altrimenti noto online come Gluca. Da quand’è che lo seguo su internet, mi sono chiesta? Non ricordo il momento esatto, ma sono sicura che sia successo prima del 2010, quando i forum e i blog erano già infestati di “Marketing Evangelist” che declamavano le loro “dieci regole” per ottimizzare al meglio qualche metrica social. C’era molto wannamarchismo in giacca, cravatta e badge, ma questo non valeva per Gluca: non solo era bravo, scriveva bene e si sforzava di spiegare al meglio i concetti più astratti, inintelligibile e fumosi del marketing, ma lui aveva un’anima. In tempi recenti, la sua newsletter mi ha salvato nei momenti post-riunione più bui, quando mi si chiedeva di impostare “target flessibili” ai cosiddetti KPI. Dunque, ho accolto il suo nuovo libro, Seguimi! Il marketing come culto, il culto come marketing (edito da UTET), con grande gioia, soprattutto perché la tesi non è troppo lontana da alcune riflessioni che vado facendo da qualche anno a questa parte. A un certo punto ci siamo accorti che tutto era culto (a volte anche setta), che la gente si era messa a venerare degli idol e non in senso metaforico, che il pensiero magico stava sostituendosi al pensiero critico, che si stavano sviluppando visioni del mondo sempre più astratte, escapiste e apocalittiche, sganciate da qualsiasi principio fisico e naturale. Il processo di secolarizzazione non si è solo arrestato, ma probabilmente non è proprio mai cominciato. Le odierne “guerre culturali” non sono altro che un nuovo modo di chiamare le guerre di religione. E insomma, Gianluca deve aver fatto il mio stesso percorso mentale ma arrivando da un’altra direzione, cioè dal mondo del marketing. Io, invece, mi sono accorta di questo fenomeno osservando le community online, i fandom e gli standom (che hanno praticamente le stesse caratteristiche dei nuovi movimenti spirituali, e talvolta delle sette), la logica delle shitstorm, i nuovi codici morali dell’attivismo performativo. Ma prima ancora, osservando i prodotti culturali del nostro tempo. Libri, film, serie TV, album musicali, insomma tutta la pop culture è derivativa di un miscuglio di tradizioni spirituali: dallo gnosticismo platonico al neopaganesimo, dai celti alla stregoneria americana, passando per il celeberrimo satanismo, dalle religioni orientali, al protestantesimo delle megachurch, fino alle tecno-religioni della Silicon Valley. Dello gnosticismo orientale di Twin Peaks e dell’esoterismo crowleyano di David Bowie vi parlerò un’altra volta. Tornerei per ora, alla tesi del libro di Diegoli, cioè di come non solo il marketing ha reso dei prodotti fisici “di culto”, ma di come l’uso di certi prodotti diventi parte integrante di nuovi movimenti spirituali, dove al posto della spiritualità c’è il consumismo.Seguimi è una rocambolesca discesa nell’Inferno dantesco, dove ogni girone ospita un nuovo marketing cult: il Crossfit, i Nutella Days, le presentazioni dei nuovi prodotti Apple, le maratone sponsorizzate dalla Nike, il network marketing, e altri “schema Ponzi” di ogni foggia e dimensione. Il mio marketing cult preferito è quello del beauty care, con le guru che suggeriscono alle loro adepte routine di skincare di almeno 12 step, per avere il controllo totale sui pori aperti e di conseguenza sulla vita. La finalità è l’accesso continuativo al conto corrente degli adepti, in cambio di una pelle splendida. Non c’è un’elevazione spirituale, però c’è l’ottimizzazione di se stessi, che è il vero obiettivo finale nell’epoca della società performativa in cui viviamo.
Al quadro già disegnato da Gianluca Diegoli nel suo libro, volevo però aggiungere un ulteriore livello. Se il marketing utilizza le stesse leve dei nuovi movimenti spirituali, è perché gli uffici marketing, le agenzie di comunicazione e le grandi aziende sono diventati essi stessi, quando va bene, delle grandi religioni organizzate (una messa alla settimana, e poi sei libero di vivere la tua vita con la tua famiglia) e, quando va molto male, delle sette abusanti della peggior specie. Negli Stati Uniti il dibattito sul tema è più avanzato, e sono nati dei gruppi di sostegno che permettono di capire se si lavora in una cult company, o se in azienda vige una corporate culture che vira sul cultish. Insomma, negli USA esistono movimenti anti-cult, che insegnano a riconoscere i gruppi abusanti di vario genere, proprio come da anni ormai esistono coach che aiutano a capire se si è dentro una relazione di coppia tossica. Tornando al mondo corporate, è ovvio che molte aziende siano del tutto normali (si lavora e basta). Ma altre sono tremendamente cultish, posti tossici dove il burnout dei dipendenti è sistematico: per esempio, il cosiddetto “MeToo delle agenzie”, benché non abbia avuto particolare seguito a livello giudiziario, ha dimostrato che l’aria che si respira in questi posti non è particolarmente fresca. Ma com’è potuto succedere? Stiamo parlando di un contesto dove si relazionano tra loro persone in maggioranza altamente specializzate (con lauree e master, in perenne formazione), con stipendi di tutto rispetto che dovrebbero essere garanzia di uno stile di vita all’insegna del benessere, assicurazioni sanitarie, bonus palestra e buoni pasto. Chi è entrato in questi posti di lavoro nel terziario è stato educato con l’idea che il lavoro sia l’unico vero modo per affermare se stesso. Tutti questi anni di studio devono essere ripagati in qualche modo, se non con uno stipendio alto, almeno con l’illusione di star facendo qualcosa d’importante. Dunque, soprattutto noi della generazione Millennial, abbiamo sempre visto nel lavoro uno scopo superiore: non tanto quello di sfamare una famiglia, ma quello di cambiare in meglio il mondo, realizzando al contempo “i nostri sogni”. Chi lavora nel marketing e nella comunicazione, in fondo, non sta facendo nulla di realmente indispensabile alla sopravvivenza della specie umana. Ecco perché, prima ancora di convincere gli altri a comprare qualcosa, deve convincere se stesso di star facendo qualcosa di davvero importante.
In un contesto come questo, il pensiero magico è già al lavoro, al di sopra di tutte le lauree in psicologia e comunicazione e marketing aziendale. Queste persone difficilmente ammetteranno che qualcosa non va dentro le loro aziende, dopo aver faticato così tanto per entrarci. Inoltre, questa corporate people si ritiene decisamente laica e secolarizzata: meno una persona si professa religiosa, più te la ritroverai a seguire corsi, gruppi, network via via sempre più… originali. Fenomeno del tutto umano: abbiamo in ogni caso il bisogno e l’esigenza di essere parte di un gruppo che segue gli stessi riti e rituali. Quando vengono a mancare quelli tipici di una religione di massa, vengono sostituiti con qualcos’altro (e sono, appunto, quelle attività di cui parla Diegoli nel suo libro): mindfulness, fitness, yoga. In molti uffici di comunicazione, ho assistito alla lettura quotidiana collettiva dell’oroscopo, ma ho visto anche la fila dalla collega che legge i tarocchi. Anzi, confesso che sono stata proprio la collega che legge i tarocchi (ammetto che volevo capire soprattutto la dinamica, più che predire il futuro): inaspettatamente, ti ritrovi di fronte colleghi che di solito nemmeno ti salutano davanti alla macchina del caffè, ma in quel caso iniziano a raccontarti tutti i loro problemi personali.
Certe aziende si proclamano “una grande famiglia” quando sono, invece, dei banali schemi piramidali, con il CEO al vertice che va sempre obbedito e mai contraddetto; i micro-manager formano un esercito che scalpita per entrare nel suo cerchio magico, e alla base della piramide ci sono “gli operativi”, quelli che vorrebbero solo fare il loro lavoro, continuamente vessati dai piani alti, e infatti anche quelli pagati meno. Le persone in questi uffici iniziano a vestirsi tutti nello stesso modo, gli uffici stessi somigliano a camerette per figli disciplinati da far svagare ogni tanto con una partita a calcio balilla. Tutti vedono le stesse serie TV, che commentano tutti allo stesso modo, magari in pausa pranzo e davanti alla stessa “schiscetta” light. Sono tutti perennemente a dieta, tutti iscritti nelle stesse palestre: i chili di troppo non sono visti bene, sono indice di pigrizia, mentale e fisica, di qualcuno che non vuole “ottimizzare se stesso”. In questi posti mancava un vero e proprio codice etico e morale, ma a un certo punto è arrivato il DEI (diversity, equity, inclusion), col suo attivismo performativo, tutto virtue signaling al posto dell’attivismo vero e proprio: loghi da cambiare durante il Pride month, pronomi nella firma, asterischi a inizio email, podcast e newsletter dove “raccontare la propria esperienza” ma dove finiscono col pubblicare solo i top manager, cestini della differenziata e distributori d’acqua con cui riempire la borraccia aziendale (anche se l’azienda in questione magari è di fast fashion, o trapana gli idrocarburi dal sottosuolo). Forse modi per espiare la colpa in un contesto estremamente cinico, dove vigono le spietate regole del mondo del marketing e dello spettacolo e i valori sono rappresentati da soldi, bellezza, giovinezza, sesso e potere.
Soprattutto, dentro le aziende si parla “la lingua segreta dei consulenti della comunicazione”, come la chiama Ilaria Padovan in questo splendido articolo. E il “linguaggio segreto” è proprio una delle variabili principali che permettono a un gruppo di essere tale. Ogni gruppo parla la sua particolare lingua, che diventa via via più complessa a seconda della propria organizzazione interna. LinkedIn è una specie di vetrina sul settarismo corporate, e per questo risulta così cringe per chi ne è fuori. Qualcuno su LinkedIn si è arrischiato a linkare questo pezzo che ho scritto per Rivista Studio: pochi like visibili, moltissime visualizzazioni, un numero di messaggi privati superiore alla media. Uno mi ha scritto: “Questo è un social dove nessuno ha il coraggio di mettere like a ciò che gli piace veramente. Come in ufficio, appunto!”; un altro aggiungeva: “è pura ipocrisia, su LinkedIn la gente principalmente è lì a leccare il culo al proprio capo che posta cose imbarazzanti e da boomer”.
A proposito di capi, chiudo con un aneddoto personale. Tra quelli che ho avuto modo di conoscere, ce n’era uno che aveva tutte le caratteristiche tipiche del boss postmoderno: maschio, boomer, non laureato, email mandate alle tre di notte, una corte di stagiste e project manager entusiaste e bellissime, la preferita da portare a braccetto. Mi dissero subito che proveniva da Herbalife. A un certo punto mi sono accorta che durante le riunioni si verificava un fenomeno, precedentemente osservato proprio dentro le sette, ossia il mirroring: una tecnica psicologica altamente manipolativa, usata per creare un legame di fiducia tra il nuovo adepto, il gruppo e il leader del gruppo. In pratica, chi accoglie il nuovo arrivato “rispecchia” i suoi pensieri, sentimenti, esperienze e modi di esprimersi, facendogli credere di essere compreso in tutto e per tutto (la fase del love bombing). Il mirroring nella sua fase avanzata, invece, prevede che il gruppo abusante segua gli stessi movimenti e ripeta le stesse cose del leader. Se avete presente Midsommar, è quando l’attrice protagonista Florence Pugh si dispera, e tutte le ragazze della setta si disperano insieme a lei, copiandone proprio gli stessi movimenti: quello è mirroring. Insomma, durante le riunioni con questo boss avevo notato che scopriva i denti e li digrignava in un modo molto particolare, tenendo gli occhi fissi, soprattutto su certe slide particolarmente ostiche e rivelatrici. Un giorno mi sono accorta che una delle sue project manager faceva esattamente la stessa cosa. Il capo digrignava, lei digrignava: mi sono messa automaticamente a digrignare i denti anch’io.
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Molto molto interessante. Ora lo posto su LinkedIn, voglio vedere quanti Luke prende, e se supera quella paraculata che ho scritto un mese fa sul potere del networking (Cristio pieta signore pietà cristo pietà)
Un articolo eccellente: questa settimana l'avrò condiviso almeno 4-5 volte ed ogni volta ne ero più convinto.
Solo una cosa: perché ce l'hai tanto coi "boomer"?
Io una vaga idea, una vaga risposta l'avrei, ma preferirei prima sentire la tua per essere sicuro di non sbagliarmi.
Grazie.