Amabili resti: anatomia di un’altra shitstorm – Beat and Love n. 13
Da uragani mediatici a brevi temporali virali, le shitstorm possono diventare occasioni di visibilità. Il caso Amabile mostra che non conta gridare più forte, ma incanalare l’indignazione
La prima cosa da chiarire è che la shitstorm che ha coinvolto Martina Strazzer e la sua azienda di bijoux Amabile, se paragonata al PandoroGate, è un temporale estivo rinfrescante della durata di mezz’ora, mentre il secondo è l’equivalente di un uragano atlantico che si abbatte sulle coste di Florida e Caraibi. Non è solo una metafora: l’intensità di una shitstorm si può misurare dalla durata, da quante piattaforme sono coinvolte, se passa da “social” a “mediale”, dal numero e dalla fama dei personaggi coinvolti; ma soprattutto dal numero di volte in cui la stessa shitstorm viene citata online, all’interno di singoli contenuti che, a loro volta, generano engagement (like, commenti e condivisioni). Se i contenuti con le citazioni sono pochi ma raccolgono molto engagement, si parla più di flame, che può salire al grado di piccola shitstorm se riesce a conquistare anche qualche titolo di giornale. Ora, utilizzando uno strumento di web listening come per esempio Talkwalker, che non fa altro che contare quanti contenuti citano una determinata parola, possiamo constatare facilmente che, nel periodo compreso tra il 31 agosto e il 6 settembre, la parola chiave “Chiara Ferragni” da sola ha generato lo stesso numero di citazioni della query (stringa di parole chiave) che mette insieme Martina Strazzer, Charlotte Matteini e Selvaggia Lucarelli, cioè le protagoniste della shitstorm del cosiddetto “caso Amabile”: 780 citazioni per Chiara Ferragni, 546 per le altre. Queste ultime citazioni hanno però generato un alto livello di engagement, sebbene complessivamente inferiore a quello di Chiara Ferragni. Un altro dato interessante riguarda il sentiment: le citazioni di Chiara Ferragni presentano oltre il 44,6 per cento di sentiment positivo (tipico dei periodi “normali”), mentre nel secondo caso prevale un 42,3 per cento di sentiment negativo e polarizzato (tipico dei dissing, dei flame e delle shitstorm). Ciò conferma che per quanto riguarda il caso Amabile siamo di fronte più a un grande flame o a una piccola shitstorm, che a un casus di larga portata (e che Chiara Ferragni è in quieta ripresa, mentre nel percepito è ancora totalmente a terra e mai più si riprenderà). In effetti, i giornali hanno dato alla vicenda un minimo di notiziabilità attraverso l’associazione con il PandoroGate e, appunto, con Chiara Ferragni.
Torniamo ai dissing, ai flame e alle piccole shitstorm: sono un fenomeno tipico e strutturale di internet, e avvengono con frequenza costante nel mondo dell’influencer marketing e della creator economy. In effetti, è uno di quei momenti in cui l’attenzione dell’utente medio si ridesta e si alza di conseguenza l’onda della viralità; questo permette agli influencer e creator di turno di allargare i confini delle proprie bolle social. Alcuni influencer alimentano costantemente dissing e flame, cercando però di non oltrepassare la soglia che li trasformerebbe in una vera shitstorm. In quei frangenti, infatti, gli storytelling iniziano a vorticare senza controllo e nessuno può prevedere chi ne uscirà rafforzato e chi danneggiato. In ogni caso, polarizzare garantisce performance e visibilità, anche se comporta rischi più elevati: bisogna essere, in sostanza, dei bravi surfisti. Inoltre, ci si può dotare di una tutina empowered mentre si surfa sull’ondata di merda virtuale: la “buona causa”. I contenuti polarizzanti lo sono perché al loro interno viene iniettata una “buona causa”, che da un lato amplifica ulteriormente la polarizzazione, dall’altro fornisce appunto una sorta di scudo, una giustificazione preventiva contro le critiche più dure. Aggiungo che agli utenti, ai follower, agli spettatori dei drama online, la presenza di una buona causa piace molto: dà la sensazione di star combattendo per qualcosa di utile, anziché perdere semplicemente tempo sui social. Le buone cause non hanno tutte la stessa portata virale: possono averla in un determinato momento, e poi perderla completamente; altre sono sempiterne come, per esempio, “salvare i bambini” o “la pace nel mondo”. In ogni caso, le buone cause devono essere riassunte in frasi sintetiche, meglio ancora se compresse dentro una parola-trigger, che diventi anche hashtag. Sembra quasi una procedura alchemica, in cui segni e parole vanno a formare sigilli magici, capaci di scatenare ossessioni collettive, maledizioni scagliate contro persone o interi gruppi sociali (come nella letteratura fantastica, anche su internet i sigilli vanno rotti, per evitare di essere “cancellati”).
Tornando al caso Amabile, la frase “Martina Strazzer ha licenziato una dipendente incinta” non ha minimamente la forza virale di “Chiara Ferragni ha truffato i bambini oncologici”. Nel mondo reale, entrambe le affermazioni non corrispondono al vero. Martina Strazzer non ha licenziato nessuno: non ha rinnovato il contratto a termine di una dipendente che ha assunto mentre era incinta, sapendo che di lì a poco sarebbe andata in maternità. Infatti, l’inchiesta della giornalista Charlotte Matteini verteva più sul fatto che la gravidanza di quella ragazza sia stata usata per fare “purpose marketing” (parola che indica proprio l’iniettare una qualche “buona causa” dentro le pubblicità, così gli acquirenti hanno la sensazione di acquistare qualcosa di utile per il bene della comunità, anziché l’ennesima collanina troppo cara, che andrà ad ammucchiarsi nella scatola insieme alle altre). Ancora meno collegata col mondo reale è l’accusa a Ferragni: non ha mai “truffato i bambini oncologici”, che messa così sembra sia entrata dentro un reparto d’ospedale e abbia venduto loro cure miracolose, il che sarebbe gravissimo. Nei suoi post social e sull’infame cartiglio, erano state scritte parole che rendevano poco chiaro il legame tra l’acquisto dell’altrettanto infame pandoro e la beneficenza in favore di un ospedale dove vengono curati i bambini oncologici. Beneficenza che, comunque, c’è stata e a più riprese. Dunque, anche nel PandoroGate, i “truffati” non sono i bambini oncologici ma il pubblico che di nuovo ha ceduto al purpose marketing. Sul perché poi il pubblico tenda a rimuovere o spostare l’oggetto di queste “truffe” su qualcun altro, bisognerebbe interpellare uno bravo in psicologia dei gruppi. È comunque l’ennesima dimostrazione che molti fenomeni online, tra cui le shitstorm, non seguono né logica, né razionalità ma principi algoritmici di cui siamo perlopiù all’oscuro: agiscono sulla coscienza collettiva in modo emotivo e caotico, facendo leva su trigger universali. Le esplosioni di rabbia e indignazione collettiva sono qualcosa di più meccanico e indotto di quanto siamo disposti ad ammettere, spesso in balìa di chi sa usare il meccanismo in maniera manipolatoria, pronto a surfare sull’onda della viralità quel tanto che basta per intercettare un po’ di popolarità. Bisogna riconoscere che nessuno è al riparo, nemmeno io.
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D’altronde, su internet la viralità, dunque l’attenzione, può essere trasformata in capitale e questo vale per chiunque voglia provarci. La viralità può vendere make up, borse, libri, abbonamenti a newsletter e gioielli in argento poco originali. A questo punto, rispondo a chi mi ha chiesto: “Ma questa Martina Strazzer è famosa?”. La risposta è no, se non famosa di quel tipo di fama su internet (o fame, che dir si voglia) che si sviluppa all’interno di bolle social, nel suo caso localizzata su TikTok e composta principalmente da utenti donne (almeno l’80 per cento, nella fascia d’età 18-34, secondo i dati di Talkwalker). Strazzer, viso d’angelo da cugina piccola di Chiara Ferragni e occhio vispo che intercetta la fotocamera dello smartphone e non la molla più, ha aperto il suo account su TikTok nel 2020, postando balletti, challenge e lip sync dell’epoca, diventando virale in pochissimo tempo, entrando a far parte del parco di tiktoker italiani famosi.
In virtù della viralità raggiunta, decide di prendere la strada della bottegaia online: scelta eccellente, essendo TikTok la piattaforma online con più potere di conversione a livello globale (in Cina nasce proprio come e-commerce). Per vendere i suoi prodotti, Strazzer mette in pratica tutti i wannamarchismi (sarebbero: le tecniche della televenditrice per un pubblico perlopiù femminile, che oggi ha una valenza negativa) a disposizione, ovviamente aggiornati al 2020 e alla gen Z: la parlantina a raffica con un tono di voce piuttosto alto, l’occhio che appunto non perde mai di vista la fotocamera, lo snocciolamento serrato di “3 motivi per cui” suggerisce di fare o non fare qualcosa, o per cui ha risolto un qualche problema quotidiano o di business (per esempio qui e qui e qui). Come la Wanna Marchi degli esordi, che parlava spesso della sua lotta con la bilancia e delle sue relazioni turbolente, aggiunge inoltre storie personali per aumentare il grado d’identificazione delle spettatrici a casa.
Strazzer nei suoi video parla senza remore di fluidi corporei, attacchi di dissenteria, meteorismo, allergie, ciclo mestruale, ovviamente per combattere “lo stigma” che circonda questo tema. Racconta che soffre di neuropatia del pudendo (o vulvodinia, una malattia “internet based” come spiegavo qui) e quando si lascia con un fidanzato fa intendere che il motivo sarebbe proprio quello, sollevando un’ondata di indignazione della sua community contro il suo ex. Questo soprattutto rafforza il legame con la community che vede in Martina Strazzer un’amica con i loro stessi problemi. A un certo punto, inventa anche il format “mi cambio le orecchie” (per esempio qui e qui), ossia video in cui mostra l’operazione di cambiarsi gli orecchini dai suoi innumerevoli buchi e piercing (esemplare momento dimostrativo di esposizione della merce che passa direttamente nella sua carne). Gli anni dal 2020 al 2025 di Martina Strazzer su TikTok sono comunque costellati di flame, drama e shitstorm. Li possiamo ripercorrere grazie alla Biblioteca di Alessandria della gen Z, cioè Webboh; ma la più rilevante è quella legata a un gioiello (un orecchio con un cuore in gabbia) che fa parte della collezione “Amore Dannoso”, dedicata appunto all’amore tossico “che alcune donne vivono e dentro cui rimangono prigioniere, vittime di uomini che prendono potere su ogni aspetto della loro vita”, cosa che Martina Strazzer dice di aver sperimentato sulla propria pelle. Ma nello stesso momento online impazza con furia l’indignazione e lo shock per la morte di Giulia Cecchettin e le community accusano Strazzer di “aver strumentalizzato quel particolare tema”. La sua strategia, quando coinvolta in una shitstorm, è sicuramente quella giusta: sottrarsi al momento d’indignazione per poi tornare quando il pubblico si è calmato (e ha rimosso l’accaduto), presentandosi con un colpo di scena che le permette di riappropriarsi dello storytelling.
Arriviamo al Team Amabile (altrimenti questo numero non finirà mai più). L’originalità nella vendita online di Martina Strazzer sta proprio nell’aver aperto un account parallelo dell’azienda, in cui le dipendenti venivano rese attivamente partecipi dello storytelling intorno al brand, rafforzando al contempo lo storytelling portato avanti da Strazzer sul suo account personale. Per esempio: sul suo account Martina faceva vedere che distribuiva assorbenti gratis a tutte le sue dipendenti? Sull’account Amabile le dipendenti facevano vedere che era vero, e che erano per questo grate alla loro boss comprensiva e amica empatica (nel video poi c’è un rovesciamento “ironico” in cui non viene detto direttamente che sono grate al loro capo, cosa che indisporrebbe immediatamente le community facendo passare le dipendenti per “un po’ troppo dipendenti”, ma che per quei motivi “odiano Martina”: ogni video a suo modo è un capolavoro di marketing, o di gaslighting, a seconda di come la si voglia vedere). Presumibilmente, tutte le ragazze che sono andate a lavorare in Amabile sono state a vario titolo prima fan di Strazzer: sicuramente lo era la ragazza incinta che poi ha lasciato il suo posto fisso per andare a lavorare in un’azienda che su TikTok sembrava un sogno rosa glitterato. L’account del Team Amabile è un incubo per chiunque abbia lavorato abbastanza a lungo dentro uffici marketing, nel mondo dei social e a contatto con influencer. Alla complessità del lavoro quotidiano si sommano, infatti, le esigenze del compiacimento costante dell’algoritmo. I più cinici tra noi aspettavano il burnout di una dipendente che, una volta uscita, avrebbe raccontato il proprio “risveglio dal delulu” (da “delusional”, chi vive in una bolla di autoillusione o fantasia, che ha smarrito il principio di realtà), esattamente come accade agli ex membri di una setta. Così è stato. Probabilmente altre continueranno a starci bene, immerse nel loro amabile mondo, dove gli uomini entrano solo per quota azzurra.
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Dopo settimane che evitavo qualsiasi contenuto sul tema, mi sono in fine fermata qui e ora so di che si parla. Grazie, eroina.